Cerimonia per il 76° anniversario della Liberazione – i discorsi istituzionali

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Palazzo Mercanti_500PIACENZA – Discorso del sindaco e presidente della Provincia Patrizia Barbieri per il 76° anniversario della Liberazione.

Sono trascorsi 76 anni, da quel 25 aprile che segnò, nelle piazze e nelle strade d’Italia, la festa per la Liberazione di un Paese che finalmente, dopo la devastazione della guerra e dell’oppressione, poteva guardare al futuro con nuova, ritrovata speranza. Nel ricordo di quella primavera che si annunciava, più che mai, come simbolo di rinascita, Piacenza rende oggi il proprio tributo alle donne e agli uomini che diedero la vita per la libertà e la democrazia, per la convivenza civile e il pluralismo.

Ideali che celebriamo con riconoscenza e profonda consapevolezza, riaffermandone il valore irrinunciabile a fondamento della nostra Costituzione, nonché l’insegnamento sempre attuale, per le giovani generazioni e per la società contemporanea, a coltivare il bene comune con senso di appartenenza, responsabilità e condivisione. Furono quegli stessi princìpi – cui nella difficoltà di questo nostro tempo ci appelliamo e facciamo tuttora riferimento – a ispirare, nel momento più buio della nostra storia, il coraggio delle scelte e delle azioni, lo spirito indomito e coerente che animò e rese possibile la Resistenza.

Come rimarcava Piero Calamandrei in un celebre discorso al Teatro Lirico di Milano, “l’8 settembre del ’43, quando cominciò spontaneo questo accorrere di uomini liberi verso la montagna… non fu un’adunata, ma la chiamata di una voce diffusa come l’aria che si respirava, che si svegliava da sé in ogni cuore”. Egli la definì “una vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo, l’indivisibilità della libertà e della pace”.

Riflessioni di cui facciamo tesoro, oggi, come un’eredità morale che sentiamo il dovere di custodire e difendere. Come emblema di quell’unità che nel nostro Tricolore trova la sua più compiuta sintesi. Come appello a onorare, nella quotidianità del nostro impegno, il sacrificio dei giovani che per amore di quella bandiera, ebbe a dire il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, “combatterono, lottarono, vinsero e furono sconfitti, caddero e morirono, talvolta tragicamente su trincee opposte per colpe non loro”.

Alla memoria di quei ragazzi va il nostro pensiero grato, commosso e partecipe, nel raccoglimento di una cerimonia che come l’anno scorso non può esulare dalle restrizioni dell’emergenza sanitaria, ma mantiene vivo e intenso il proprio significato.

Nel nome di chi si è unito alle formazioni partigiane sulle nostre montagne, di chi ha offerto loro supporto e rifugio, della tenacia e della fatica delle staffette, del servizio prezioso di medici e infermiere, della presenza umana e compassionevole dei ministri del clero, da don Giuseppe Beotti a don Giuseppe Borea, che sino all’ultimo istante, di fronte al plotone d’esecuzione delle truppe fasciste, pronunciò parole di pace e perdono. Nel ricordo di chi indossava la divisa dell’Esercito italiano, come i 5.200 soldati piacentini catturati e ridotti in schiavitù dal Terzo Reich.

Nell’abbraccio alle donne italiane arrestate e vittime di indicibili violenze per la loro opposizione al regime: furono più di 4500, oltre 600 vennero condannate a morte, quasi 3000 furono deportate nei campi di concentramento. Come Anna Cherchi, giovane staffetta tra i boschi piemontesi, che andò incontro alle milizie tedesche per consentire, ai partigiani che erano con lei, di mettersi in salvo: fu torturata ogni giorno, per un mese, ma non tradì mai il silenzio. A 18 anni, venne caricata su un carro bestiame diretto a Ravensbruck: riuscì a sopravvivere a quell’orrore, di cui fu sempre testimone nell’incontro con i più giovani.

Gli storici hanno visto, nel loro ruolo da protagoniste, la figura forte e protettrice di una madre. Lo erano Gina Galeotti Bianchi – fucilata a 32 anni a Milano mentre pedalava, incinta di otto mesi, per portare l’ordine di insurrezione verso Niguarda – e Genoveffa Cocconi, consumata dal dolore per la barbara uccisione dei suoi sette ragazzi, i fratelli Cervi, che nel novembre del ’44 si spense dicendo, semplicemente, “Torno a stare coi figli miei”.

E’ per tutti loro – operai, contadini, intellettuali e insegnanti che non smisero mai di usare la cultura come arma, militari e civili, avvocati e magistrati che non si piegarono alle minacce e alla brutalità, uomini e donne di ogni fede ed estrazione sociale, ognuno mosso dall’adesione a un disegno più grande – che oggi siamo qui e sentiamo idealmente, accanto a noi, la comunità piacentina. Perché la Liberazione è patrimonio di una Nazione intera, oggi più che mai chiamata a riscoprire il senso autentico di quella coesione sociale capace di superare ogni steccato. Lo ha sottolineato l’anno scorso, a margine della cerimonia in cui è stata premiata al Quirinale, Giovanna Covati, descrivendo il rapporto tra papà Agostino e Renato Cravedi, partigiani: “Sono amici da sempre, si sono conosciuti a 18 anni sulle montagne. Uno, Renato, comunista. L’altro, papà, democristiano. Eppure sono d’accordo sempre, su tutto. Sono loro la bella Italia”.

Nella semplicità di queste parole, in cui tutti possiamo riconoscerci, è racchiuso l’esempio luminoso di quell’esperienza, la testimonianza di un’intera generazione travolta, in questi mesi, dall’impatto durissimo della pandemia. Per questo è così importante che oggi vi sia, in rappresentanza dei propri coetanei, una delegazione della Consulta studentesca, che durante l’anno ci ha accompagnati nei momenti più significativi di rievocazione della nostra storia, a cominciare dalle giornate della Memoria e del Ricordo. E ora qui, al cospetto del Sacrario dei Caduti, nella ricorrenza in cui sono innanzitutto i giovani a dare voce ai diritti e alle conquiste di cui ci hanno fatto dono, pagandone il prezzo più alto, i combattenti della Resistenza.

E’ allora ai nostri ragazzi che vorrei dedicare, in particolare, i versi di Giuseppe Colzani, classe 1927, che si unì alla lotta per la Liberazione quando aveva la loro età. “Avevo Due Paure. La prima era quella di uccidere. La seconda era quella di morire. Avevo diciassette anni. Poi venne la notte del silenzio. In quel buio si scambiarono le vite. Incollati alle barricate alcuni di noi morivano d’attesa. Incollati alle barricate alcuni di noi vivevano d’attesa. Poi spuntò l’alba. Ed era il 25 aprile”.

Oggi siamo tutti in attesa di una nuova alba. Guardare al domani con fiducia non è facile, soprattutto per chi è stato più duramente provato dalla crisi sociale ed economica conseguente alla pandemia. Tuttavia, in questa piazza in cui ci viene richiesto di osservare con rigore le distanze, possiamo comunque sentirci vicini. Uniti.

A insegnarcelo è la determinazione, la volontà di rivalsa, l’abnegazione e la generosità di cui i partigiani italiani, come tutti coloro che hanno dato il proprio contributo per la causa della libertà, ci hanno lasciato la più preziosa testimonianza. Se il nostro Paese saprà perseguire sempre un domani di giustizia, pace e libertà, lo farà sul loro esempio e sulle gambe dei nostri giovani, insieme ai quali riaffermiamo, a testa alta: viva la Libertà, via l’Italia.