Invenzioni e tutele: chi sono i proprietari “veri” dei prodotti tipici?

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Il parere della Commissione Food Project dell’Università di Parma

PARMA – In questi ultimi giorni si è assistito a un rinfocolarsi del dibattito in merito alla correttezza della tutela dei prodotti tipici. Per questo motivo la Commissione Food Project dell’Università di Parma ha voluto esprimere in materia il parere contenuto nel testo qui sotto.

Ha ragione chi dice che il pomodoro di Pachino, il panettone e tanti altri prodotti che caratterizzano e costituiscono l’immagine della cucina italiana sono il risultato di fortunate coincidenze.

In tutto questo non c’è nessuno scoop. Sappiamo tutti benissimo che il pomodoro è arrivato in Italia grazie a Cristoforo Colombo e che i pistacchi, assieme a tanti altri prodotti alimentari, sono arrivati grazie agli arabi.

È vero, altresì, che la tradizione a volte viene usata come concetto identitario e del Paese.

L’Italia ha una lunga storia che si caratterizza per un’evoluzione sociale come poche popolazioni al mondo. È stata conquistata militarmente, economicamente e politicamente da quasi tutti i regni europei e ognuno di loro ha lasciato qualcosa nel nostro paese, anche da un punto di vista alimentare. Il modo di produrre il cibo nei secoli è cambiato e lo si deve a persone, come Pellegrino Artusi, che per passione o missione hanno preso carta e penna lasciandoci le ricette che poi sono diventate la “Cucina Italiana”.

La stessa Italia è un Paese relativamente giovane e prima del 1861 non si poteva parlare di vera cucina italiana per il semplice fatto che l’Italia come Stato non c’era.

Nel tempo sono cambiate le tecnologie, sono cambiati i gusti, è cambiato lo stile di vita ed è cambiata la società italiana. Da un punto di vista alimentare gli italiani hanno dimostrato di essere un popolo di inventori, accogliente, che ha saputo integrare le ricette portate da coloro che migravano lungo la penisola, con le proprie, fondendo tradizioni di famiglia in famiglia. Famiglie che hanno imparato a riconoscere queste rinnovate tradizioni come proprie e oggi tifano per alcune preparazioni considerandole identitarie.

Ma attenzione, non si può fare confusione; un conto è la cultura culinaria, la grande gastronomia, che evolve si adatta e si “contamina” senza particolari obblighi riguardo alla difesa delle denominazioni e quindi della proprietà intellettuale, un altro sono gli alimenti derivanti da un’organizzazione industriale della trasformazione di materie prime quali il latte o la carne, legati non solo a storia e tradizione territoriale ma anche a sistemi di tutela del nome. Un conto sono le tagliatelle alla bolognese, o il sushi, ma altra cosa sono i prodotti tradizionali e DOP come il Prosciutto di Parma o il Parmigiano Reggiano.

Qualcuno ha “inventato” e sviluppato empiricamente questi i prodotti alimentari, basandosi sulle conoscenze e le tecnologie disponibili al momento in un territorio e poi, nel tempo, li ha migliorati e adattati rispetto alle conoscenze tecniche e al contesto storico precedente.

È ovvio che anche la tradizione evolve e si modifica nel contesto del mondo che la circonda. Pochi o nessuno sono gli alimenti trasformati DOP che risultano identici ai loro antichi antenati. Negli anni sono cambiati i paesaggi agrari, le modalità di allevamento degli animali e le abitudini di consumo. L’ambiente che circonda un prodotto evolve nel tempo, imponendo al prodotto stesso inevitabili modificazioni.

Il cuore dell’identità di un prodotto DOP non è nella sua sovrapponibilità tecnica col prodotto primordiale ma nella cultura del saper produrre alimenti delle popolazioni e dei territori a cui tale prodotto DOP appartiene. Nella capacità di chi produce di modificarlo in base alle variabili che lo circondano senza tradirne l’essenza tecnica e senza tradire la cultura da cui si è evoluto.

L’evoluzione, quando non indiscriminata, deve essere elemento di continuità dello sviluppo di un prodotto DOP, della sua capacità di modificarsi unitamente al mondo che lo circonda e alle attese del consumatore.

Non è quindi nel rispetto di antiche regole, quasi sempre non scritte, che risiede l’identità della DOP ma nella sua capacità di rispondere alle attese, alle aspettative, di un consumatore senza tradirne l’essenza.

Ad esempio, questo processo iniziò a trovare identità precisa e scritta per i formaggi in Europa nel 1951 con la Convenzione di Stresa.

Gli italiani, popolo di emigranti, hanno pervaso il mondo portando con loro i propri prodotti e hanno espresso la capacità intelligente di adattarli, e adattare in particolare le relative modalità di produzione, ai nuovi sistemi agricoli e industriali nei quali si sono trovati a operare. Partendo dal punto comune rappresentato dall’alimento fatto fino a quel momento secondo le conoscenze del tempo, Italiani rimasti in Italia e Italiani emigrati hanno diversificato l’evoluzione del modo di fare quell’alimento e delle sue caratteristiche in funzione dei destinatari. Il Parmesan made in the USA di oggi è molto diverso dal suo punto di partenza di un secolo fa, in quanto ha dovuto soddisfare un mercato con richieste diverse da quello italiano e non è la crosta nera, spesso non più tale, che lo rende più simile al Parmesan di un secolo fa.

Ogni Stato o comunità di Stati ha quindi sviluppato nel tempo sistemi di tutela delle denominazioni in funzione dell’origine geografica e/o di standard di prodotto.

Il Parmigiano Reggiano si è modificato nel tempo per adattarsi, come doveroso, agli ambienti di produzione e alle esigenze dei caseifici di fronte a una domanda crescente. Il suo legame col territorio e con la cultura a cui si riferisce si ascrive al rispetto di un modo di produrre che nel tempo si è evoluto in Disciplinare di produzione condiviso. La già citata convenzione di Stresa ha tracciato il confine tra un prima, artigianale, fatto anche di differenze e grande variabilità, e un dopo, fatto di qualità costante e di regole di produzione condivise.

Regole che si sono evolute e adattate nel contesto storico, economico e culturale nel quale ci troviamo. Tra queste sono nate anche le regole che definiscono quando un alimento è tradizionale e quando è da considerarsi tipico o “di Origine”. Sono le regole attuali, che le persone e gli agenti economici si sono dati, che definiscono lo spazio di azione e i comportamenti legittimi di chi produce e di chi vende.

Per legge, un prodotto alimentare è considerato tradizionale quando ha 25 anni di storia. Il legislatore ha ritenuto che, se in questo arco di tempo quell’alimento o pratica produttiva alimentare perdura, allora questi sono entrati nel vissuto dei consumatori e nel sistema produttivo di un territorio. Allo stesso tempo è considerato “di Origine” quando un gruppo di produttori di un territorio si è dato delle regole produttive condivise, vincolanti, controllate da una parte terza e che sono state accettate dalla Collettività attraverso un atto legislativo. Nello scrivere le regole (il disciplinare), gli agenti (i produttori) tengono conto non solo della storia ma soprattutto del legame con l’area geografica di origine delle materie prime, quindi il territorio, delle tecnologie disponibili e dell’evoluzione dei gusti dei consumatori che riflettono, a loro volta, il cambiamento culturale della società. In altre parole, è un territorio che, attraverso le sue forme di rappresentanza, scrive le regole produttive. Il perché queste regole sono scritte e sono pubbliche è dovuto alla necessità di evitare comportamenti sleali attraverso l’uso di forme di tutela della proprietà intellettuale e di lasciare la possibilità a nuovi produttori di entrare nel sistema, se a loro volta sono disposti ad accettare tali regole.  

Nel mondo sono almeno due i registri dei prodotti di Origine (definita dai trattati come “Indicazione Geografica”) e, più precisamente, l’uno dell’OMPI (Organizzazione Mondiale della Proprietà intellettuale) e l’altro dell’OMC (Organizzazione Mondale del Commercio) che applicano rispettivamente l’Accordo di Lisbona e gli Accordi TRIPS. Queste norme sono uno strumento di tutela per gli imprenditori che applicano le regole, ma tutelano soprattutto i consumatori guidandoli verso un acquisto consapevole senza il timore di essere truffati.

Per ottenere lo status di “Indicazione Geografica” i produttori devono quindi muoversi all’interno di un percorso legislativo che prevede una serie di passaggi che dimostrano un legame forte con un territorio da un punto di vista storico e culturale. Proprio l’aspetto culturale è una componente fondamentale in quanto è inteso come la capacità dei produttori di adattare le tecnologie produttive all’ambiente locale superando le difficoltà tecnologiche legate al territorio, di avvantaggiarsi delle risorse naturali presenti e di generare un prodotto che, per le sue caratteristiche intrinseche ed estrinseche, si presenta unico e non riproducibile in altro luogo e con altre conoscenze. Per questo motivo, per fare un esempio, solo per l’Italia, se guardiamo i prodotti “di Origine” (DOP e IGP) troviamo diverse tipologie di mele, diverse tipologie di formaggi a pasta dura, diverse tipologie di formaggi a pasta filata, diverse tipologie di prosciutti stagionati (prodotti dalla stessa razza di maiale), etc. Basta andare sul sito della Commissione Europea “eAmbrosia” per avere una idea di quanti sono i prodotti “di Origine” registrati in Europa come Indicazioni Geografiche.  Il beneficio che si ricava da questa complessa architettura è che i consumatori non devono essere degli storici dell’alimentazione o esperti conoscitori di prodotti tipici per non essere truffati. Basta fidarsi dei segni di qualità che esprimono l’impegno dei Governi e delle Associazioni dei produttori nel garantire il rispetto delle regole produttive.

Se la domanda è se possiamo considerare i prodotti tradizionali e “di Origine” come rispettosi della storia e capaci di mantenere le caratteristiche per cui sono riconosciuti e tutelati, la risposta è certamente sì. 

Dato questo quadro di riferimento, la comunità scientifica in questi anni, grazie al benessere raggiunto e alle risorse finanziarie immesse, ha contribuito al processo di revisione di alcuni aspetti dei disciplinari di produzione con l’intento di migliorare la qualità dei prodotti, sostenendo i produttori nel loro percorso produttivo.

In particolare, l’Ateneo di Parma ha contribuito al processo evolutivo del sistema individuando e testando percorsi tecnologici capaci di coniugare la tradizione con le opportunità date dalle nuove tecnologie, nel rispetto delle regole.

È un lavoro costante senza clamori e senza scoop, coscienti che si tratta di ricerca legata ai prodotti dei territori e ai produttori che cercano di migliorare costantemente la qualità dei loro prodotti.

Commissione Food Project Università di Parma